da La Voce Repubblicana (20 settembre 2008)
Le paure e le speranze di Tremonti/Analisi e proposte del ministro dell’Economia
Giulio Tremonti, artefice di una coraggiosa manovra finanziaria, che per il suo rigore nel taglio della spesa pubblica sarebbe piaciuta a Ugo La Malfa, sostiene (La paura e la speranza) che tutti i mali dell’Occidente, in generale, e dell’Italia in particolare, hanno una data precisa di inizio, il 15 aprile 1994, quando a Marrakech è stato firmato l’accordo WTO sul libero commercio internazionale che ha aperto i nostri mercati all’invasione dei prodotti delle emergenti economie asiatiche; i mali derivano, perciò, dal mercatismo e dalla globalizzazione, che, con le loro lusinghe e i loro effetti perversi, finiscono per ridurci in miseria (“l’Occidente esporta ricchezza e importa povertà”).
L’analisi di Tremonti è molto acuta e ben argomentata ed ha il pregio di prendere atto che il processo di globalizzazione è ormai inarrestabile e che sarebbe illusorio il ritorno a barriere protezionistiche. Ma l’autore, dopo avere diagnosticato la paura per un Occidente che sarà ineluttabilmente sommerso, non fosse altro che per la sua ridotta dimensione demografica, dai giganti asiatici nel volgere di pochi decenni, propone una serie di misure terapeutiche, che, però, non ci appaiano sempre efficaci.
Contro i mali del mercatismo Tremonti, usando stranamente proprio la lingua della globalizzazione, propone come assolutamente necessaria la ricetta del market if possible, government if necessary. Una formula che piace a molti (perché rassicura e concilia) e che un liberale come Monti ha tradotto nella sua “economia sociale di mercato”, sulla quale lo stesso ministro ha preventivato l’apertura di una di-scussione in autunno. La formula, di per sé convincente (ma di quante buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno?), desta, però, qualche preoccupazione. Non ultimo, Franco Debenedetti su “Il Sole 24 Ore” di domenica, interrogandosi su cosa significhi questa formula, ne ha paventato una deriva socialista (Il sociale di mercato e la deriva socialista).
Ugo La Malfa ci ha insegnato che non esistono ricette economiche che siano buone in ogni momento e in ogni paese, tanto è vero che l’economia è l’unico terreno sul quale teorie contrapposte possono avere identica dignità scientifica. Occorre, perciò, sempre valutare nel concreto le situazioni in cui si è chiamati ad operare. Da questo punto di vista la realtà dei paesi europei (tranne quella anglosassone) e quella italiana in particolare non ci sembra che abbiano storicamente sofferto di eccessivo mercatismo, anzi, al contrario, sono state caratterizzate da una eccessiva ingessatura statalistica.
Nella realtà italiana, dove le culture dominanti, dal fascismo al comunismo al cattolicesimo, hanno sempre avuto come denominatore comune la fede nell’assistenzialismo e nella presenza invasiva dello Stato, evocare i danni del mercatismo ci appare francamente eccessivo e non può non preoccuparci sentir parlare di economia sociale di mercato, laddove attraverso l’aggettivo sociale già è facile intravvedere un ritorno della presenza statalista, che appunto in nome della socialità, sarà nuovamente chiamata a interferire sul terreno dell’economia, a salvare aziende decotte, a farsi imprenditore.
Government if necessary. Già. Ma chi lo stabilisce, quando è necessario? Era proprio necessario, per esempio, un intervento governativo per l’Alitalia? Nessuno, al riguardo, nonostante le ufficiali dichiarazioni di entusiasmo, ha ancora risposto alle preoccupanti obiezioni mosse da Giavazzi sul “Corriere della Sera” (Le insidie di un percorso, 27 agosto 2008).
Se la ricetta tremontiana per contrastare il mercatismo ci lascia perplessi, ancor meno ci convincono i suggerimenti per affrontare i mali della globalizzazione. Non che non sia importante occuparsi di “valori, famiglia identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo”. Ma se i primi non ci appaiono sufficienti, del tutto superfluo, se non negativo, ci sembra il richiamo al federalismo. E’ possibile rispondere alla globalizzazione con il federalismo?
Tra tutte le risposte, però, che Tremonti individua per fronteggiare la concorrenza asiatica la più rilevante è certamente quella della carta europea. Non a caso vede nell’Europa dei burocrati di Bruxelles, che si è limitata sino ad oggi ad occuparsi di moneta unica e di economia, uno strumento assolutamente inadeguato, che deve essere rivitalizzato, ridando alla politica il ruolo di centralità che le spetta. Come non condividere l’affermazione che “la forza identitaria e unitaria dell’Europa non può essere fabbricata creando ancora più regole, ma con i principi politici”? Dalla impietosa analisi di Tremonti emerge la necessità di un’Europa permeata di comuni valori politici e identitari, che ancora non esiste. Del resto, basti guardare alle recenti olimpiadi. In testa al medagliere si sono collocati gli Stati Uniti con 110 medaglie, a seguire la Cina con 100, la Russia con 72 e poi tutte le altre nazioni. Ma i paesi dell’Europa comunitaria quante medaglie hanno cumulato? 285! Se L’Europa fosse stata una nazione, non ci sarebbe stata gara. Ma l’Europa non è una nazione e non è sentita come tale dai suoi abitanti. Michael Phelps è un cittadino dello Stato del Maryland, ma tutti gli americani hanno esultato per le sue otto medaglie d’oro. Per la vittoria di un atleta francese, non ci sono state esultanze in Germania, o in Italia, e viceversa.
L’Europa come nazione non esiste, è soltanto un’area di libero scambio con una moneta unica. Per questo non conta alle olimpiadi, come non conta nella politica internazionale. Certo, per rispondere alle sfide della inarrestabile globalizzazione che ci vengono dal mondo asiatico, ci vorrebbe una grande nazione europea. Ma a fare l’Europa non sono sufficienti e probabilmente neanche servono le minuziose direttive di Bruxelles sulla lunghezza delle carote e il diametro delle mozzarelle. Occorre ben altro. Occorre qualcosa di forte, capace di creare quello spirito di appartenenza che possa costituire l’élan vital di una nazione.
I recenti avvenimenti in Georgia, se ce ne fosse ancora bisogno, hanno dimostrato, nonostante l’impegno del presidente francese e le telefonate personali del nostro premier, quanto poco conti l’Europa sullo scacchiere internazionale. Stalin, una volta, chiese quante divisioni avesse il Papa, a dimostrazione che nella mentalità russa valgono soltanto gli equilibri di forza. La valutazione di Putin è la stessa, perché così è sempre stato per i governanti moscoviti. Quante divisioni ha l’Europa? Questo lo avevano capito i padri costituenti che negli anni ’50 (a iniziare da Carlo Sforza) tentarono di dare vita alla CED, la Comunità Europea di difesa, con la creazione di un esercito unico europeo.
Quell’esperimento fallì e si ripiegò sulla strada dell’unificazione economica. Oggi ci accorgiamo che quanto è stato realizzato non è sufficiente e che la via economica non potrà mai dare un’anima all’Europa. L’unità politica si realizza su comuni valori (e interessi) politici. Ripensare alla CED e a un esercito europeo sotto un’unica bandiera significherebbe assegnare alla politica quella preminenza sull’economia che Tremonti vorrebbe perseguire e per la quale non è sufficiente (e forse neanche necessario) il richiamo, come il ministro insiste, alle “radici giudaico – cristiane dell’Europa”.
Fonte: http://www.pri.it/new/1%20Settembre%202008/TartagliaTremontiPaureSperanze.htm