da La Voce Repubblicana (21 giugno 2008)
Il rinnovo del Parlamento Ue/Occasione decisiva per riaffermare il ruolo del Pri
Il condirettore di questo giornale, Italico Santoro, si è posto e ha posto a tutti i repubblicani l’interrogativo se ci sia ancora una possibilità di sopravvivenza per il partito all’interno di un sistema bipolare che sembra trasformarsi in bipartitico.
Il Consiglio nazionale del partito nella sua ultima riunione di fine maggio ha confermato la decisione, già assunta dalla Direzione Nazionale, di aderire in Parlamento al gruppo misto e di proseguire sulla strada della Costituente liberaldemocratica. Si tratta, come è evidente, di due decisioni strettamente connesse tra loro e che rispondono in termini affermativi alla domanda se ci sia ancora spazio per una autonoma presenza politica dei repubblicani.
La rivendicazione dell’autonomia del partito, però, non può e non deve essere una mera dichiarazione di orgoglio. Né tantomeno ridursi alla testimonianza di una tradizione ideale che sembrerebbe scomparire alla luce del crollo delle ideologie. E’ certamente un fatto da non trascurare che lo schieramento politico emerso dalla rivoluzione giudiziaria di mani pulite (più che una rivoluzione si è trattato di un vero colpo di Stato) abbia registrato la scomparsa di tutti indistintamente i partiti tradizionali della cosiddetta prima Repubblica ad eccezione di uno solo, il Partito repubblicano. Ed è certamente vero che tutte le ideologie messianiche che hanno infiammato l’ottocento e precipitato il novecento in un mare di sangue sono state precipitosamente archiviate e nascoste in soffitta, insieme alle insegne ed ai simboli dei rispettivi partiti. E’, perciò, altrettanto vero che mentre nella storia di tutti gli altri partiti c’era qualcosa di cui vergognarsi, tanto da consigliarli a cambiare nome, nella nostra storia non è stato trovato nulla che potesse indurci a scomparire o a nasconderci dietro nomi di fantasia.
Tutto questo, se può inorgoglirci, non è, però, sufficiente ad assicurarci un presente e un futuro. Occorre, allora, guardare con attenzione e senza pregiudizi al quadro politico nel quale ci troviamo ad operare, per trarne i conseguenti suggerimenti.
Subito dopo la proclamazione dei risultati elettorali, da più parti si è gridato al miracolo perché grazie ai meccanismi della legge elettorale i partiti dell’estrema sinistra e dell’estrema destra scomparivano dal parlamento, mentre il consistente successo del Pdl e del Partito democratico di Veltroni era letto come segno inequivocabile che si fosse definitivamente imboccata la strada del bipartitismo. Ad analisi così affrettate ed emotive, non ho, francamente, mai creduto ed ho già cercato di spiegarne le motivazioni sulla “Voce”. Oggi, per come si va sviluppando la situazione politica, mi sembra che quelle valutazioni di eccessivo entusiasmo mostrino tutta la loro fragilità ed inducano a diverse riflessioni.
In premessa è sempre bene tener presente che una legge elettorale può cancellare una forza politica dal Parlamento, ma non può cancellarla dal Paese, se essa è presente, è radicata e sa farsi sentire. Né una legge elettorale, per sua intrinseca virtù, può trasformare il sistema politico in bipartitico, quando questo nella realtà storica e politica non esiste.
Fatta questa doverosa premessa, c’è da dire che mentre nel centrosinistra si affievoliscono le speranze veltroniane per un Partito democratico moderato e consapevole, che l’elettorato di centrosinistra (con buona pace degli esigui liberal) ha mal digerito, preferendo, quasi ineluttabilmente, la deriva girotondina che sopravanza, la situazione del centrodestra non appare migliore. L’invenzione berlusconiana del partito unico di centrodestra altro non è stata che la convergenza tra Forza Italia e Alleanza Nazionale. A sua volta Forza Italia era una costruzione, per quanto artificiosa, che sommava pulsioni liberali, proprie del vecchio partito liberale e del socialismo craxiano, e istanze assistenzialistiche congenite al mondo e all’elettorato rappresentato dalla Democrazia Cristiana. La somma di tutti questi soggetti ha creato un partito al cui interno la cultura statalistica e assistenzialistica è decisamente prevalente rispetto a quella liberale. Né le prospettive di evoluzione di questo partito possono sembrare di segno diverso.
Se così stanno le cose, la storica insofferenza dei repubblicani ad essere imbrigliati in schieramenti, si dimostra ancora una volta un elemento di vitalità e di propulsione. Abbiamo di fronte una scadenza elettorale, quella del rinnovo del Parlamento Europeo, che può essere un’occasione decisiva per riaffermare il nostro ruolo e la nostra autonomia. Le elezioni europee creano agli altri partiti gravi problemi di collocazione. Se il Pdl aderirà, come sembra deciso, al Partito popolare, come si schiereranno e come voteranno i liberali che hanno scelto Berlusconi? E se il Partito democratico aderirà al Partito socialista, come si schiereranno e come voteranno i liberali di centrosinistra?
E’ perciò di tutta evidenza che la scelta repubblicana di rilanciare la costituente liberaldemocratica è stata opportuna e tempestiva. Ma non bisogna indugiare oltre. Occorre che questa scelta si tramuti in precisi atti operativi e soprattutto visibili; che il partito, in una competizione elettorale che non obbliga a schieramenti contrapposti, sappia e voglia aggregare tutte le forze autenticamente liberali e che l’elettorato sappia da subito che esiste una speranza liberaldemocratica.
Fonte: http://www.pri.it/new/20%20Giugno%202008/TartagliaSperanzaLiberalDemo.htm